Damasco, i tappeti e la guerra |
Mathias, come indica anche il nome, è un cristiano ortodosso, un membro della numerosa e variegata comunità cristiana siriana, che si divide tra le innumerevoli chiese che popolano questa terra antica. Il padre Nabil è da sempre nel commercio dei tappeti e gestisce un rinomato negozio nel quartiere cristiano di Damasco, affacciato sulla “via Recta”, l’antico decumano romano, a pochi passi da Bab Sharqi, la porta orientale della città medioevale, in una zona tranquilla, popolata da botteghe di artigiani e negozietti di antiquariato. Il negozio ha tutto il fascino di un bazar mediorientale, un luogo accogliente e ospitale dove è possibile “perdere tempo” a guardare e a discutere di tappeti, a chiacchierare del più e del meno bevendo un tè, o anche ad assistere alle contrattazioni di altri clienti, senza mai sentirsi pressati all’acquisto o essere guardati con sospetto e fastidio. E’ qui che nel 1996 conobbi Mathias, figlio d’arte poco più che trentenne, affabile e discreto, sapiente amministratore di sorrisi e spiegazioni. Allora il negozio era molto ben fornito di tappeti antichi, per lo più acquistati da privati, costretti dal bisogno a disfarsi del patrimonio di famiglia, e venduti a prezzi sicuramente convenienti rispetto alle quotazioni europee. L’anno scorso sono tornato a Damasco per motivi di lavoro e ho così potuto riassaporare, tra le altre cose, anche l’atmosfera accogliente e rilassata del negozio di Mathias. Il primo impatto è stato quello di essere tornato indietro negli anni: la stessa atmosfera, gli stessi odori, le stesse voci. Poi mi sono lentamente reso conto che il tono del locale, così come quello della città, era più silenzioso e dimesso. Il soppalco vuoto e spento, i bei tappeti antichi una rarità. Pochi i turisti, poco il movimento, pochi i soldi: per i più una conseguenza del clima pesante che avvolge tutto il Medio Oriente, della paura e dell’incertezza generate dall’approssimarsi della probabile guerra in Iraq, con i turisti che si tengono alla larga dalla Siria e i siriani che evitano di spendere. L’ultima volta che ho visto Mathias è stato nel febbraio di quest’anno. Mi ha accolto con la sua maniera buffa di salutare, toccandosi rispettosamente con la mano destra prima il cuore e poi la sommità della testa. Era indaffarato a mettere in trazione due lunghi tappeti, per mezzo di un ponte a carrucola sistemato nell’atrio interno del negozio, e mi ha chiesto di tenergli compagnia. Così, vuoi o non vuoi, abbiamo cominciato a parlare della guerra alle porte. La posizione di Mathias mi ha sconcertato: lui sperava di cuore che la guerra iniziasse al più presto, e che il terremoto travolgesse, insieme a quello iracheno, tutti gli altri regimi arabi, dall’Iran alla Siria alla Giordania a tutto il Maghreb, usando parole sprezzanti per chi, come Francia e Germania, “fa il pacifista solo per difendere i propri interessi economici in Iraq”. Non era proprio il tipo di discorsi che mi aspettavo da lui: e gli americani, il petrolio, l’imperialismo? La risposta è stata che “Si, gli americani vogliono prendersi il petrolio del Medio Oriente, ma tanto anche adesso il ricavato della vendita del petrolio non va mica al popolo, finisce nei conti svizzeri delle famiglie mafiose ai vertici del potere. Magari con gli americani rimarrà qualcosa di più nelle tasche della gente”. Ti racconto una barzelletta”, mi ha detto, “Ci sono due prostitute, una giovane e una più anziana; tre uomini le caricano a bordo della loro auto, dopo essersi messi d’accordo sul prezzo. Mentre sono sulla strada, tre uomini armati bloccano l’auto, uccidono i clienti e sequestrano le donne. La più giovane si mette a piangere disperata e terrorizzata. - Perché piangi? – la consola tranquilla l’altra – visto che comunque ci dovevano fottere, è meglio che lo facciano i più forti - ”. Nel frattempo ci eravamo spostati all’interno del locale, io seduto sulla solita panca e lui di fronte a me, a cavalcioni di una sedia girata al contrario, le braccia poggiate sullo schienale. La sua espressione, solitamente improntata ad una gentilezza ossequiosa e discreta, era diventata al tempo stesso più mesta e passionale. Il suo discorso aveva rotto gli argini, arrivando a toccare punti sensibili, echi vicini di esperienze personali dolorose, che trasparivano nel suo sguardo più lucido, nel tono più aspro della sua voce. Per un volta, non ero più un cliente straniero con la carta di credito, ma un altro uomo con cui parlare. “Ma lo sai come funzionano le elezioni qui? Ti prendono tutti i dati e poi ti presentano la scheda chiedendoti a voce alta: - vuoi votare SI oppure NO? – E tu che fai, rispondi per caso NO? E mettiamo pure che tu dica - voto NO -. L’impiegato allora ti chiede: - Hai detto NO? Ne sei proprio sicuro? – E se insisti, lui dice va bene e annota un segno rosso accanto al tuo nome sul registro dei votanti”. “La nostra è come la ex dittatura sovietica, solo con in più il paravento della religione – arab style –. Perfino nelle scuole elementari, ogni cinquanta bambini ce n’è uno che fa la spia per conto della polizia segreta. Per questo qui in Siria tutti nelle strade dicono – Fuck Bush, Fuck America – ma in privato pregano per essere liberati dagli americani”. “Hai visto le automobili nuove che girano a Damasco? Pochi se le possono permettere, comprarne una costa un occhio della testa, molto di più che in Europa. Bisogna pagare un sacco di tasse per la loro importazione, soldi che in un modo o nell’altro finiscono nelle tasche di chi sta su. Vedi, qui funziona così: se vuoi il pesce, il governo te lo procura, ben incartato; ma se vuoi la canna da pesca, niente da fare. Anche così tengono il paese sotto controllo, non facendo sviluppare la sua economia, non costruendo le fabbriche”. Ma non era sempre stato l’occidente il primo complice dei regimi arabi autoritari? Avrebbero davvero potuto le bombe degli americani portare il progresso e la democrazia? E le vite spezzate della gente comune? E il terrorismo? Mathias ha alzato gli occhi al cielo: neanche lui aveva risposte certe e forse era in fondo consapevole delle contraddizioni del suo discorso, dettato più dal cuore che dalla ragione. Si era fatto tardi, dovevo andare. Ci siamo congedati con una stretta di mano sorridente e un piccolo inchino, augurandoci che le cose andassero per il meglio, in sha’Allah. Questa volta il fardello che mi portavo dietro non era quello di un tappeto malandato, impacchettato con la carta e lo spago, ma un carico di pensieri e di paure, che mi facevano sentire al tempo stesso così vicino a quella città e alla sua gente e così impotente rispetto a un abisso che rischiava di separarci per lungo tempo. Aprile 2003
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