Il re fantasma

    C‘era una volta un re fantasma. Lui era in verità morto da un pezzo: almeno trecento anni, secondo il ministro delle finanze, esattamente quattrocentosei, a detta dello storico ufficiale di corte, addirittura cinquecento, raccontavano nelle osterie i cantastorie.
    Fatto sta che era passato un bel po’ di tempo e nessuno ricordava esattamente come fossero andate le cose, anche perché gli archivi del regno erano stati bruciati durante l’ultima grande guerra, quella in cui l’esercito nemico era arrivato dal mare, in una notte d’agosto, e aveva messo a ferro e fuoco la città. I vecchi ricordavano ancora che l’incendio fu terribile e divampò e crepitò per un’intera settimana.
    Il re Bisticchio era stato un re buono e saggio, molto amato dal suo popolo, un poco meno dai signorotti e dai mercanti, che dovevano sottostare, come gli altri, alla giustizia delle leggi del regno. Morì vecchissimo, di morte naturale, e, non avendo né figli né nipoti, lasciò vuoto il suo trono. Si racconta che, quando dopo i funerali si riunì il consiglio dei ministri per decidere sulla nomina del nuovo re, vi furono discussioni particolarmente accanite. Chi tirava di qua, chi tirava di là, ma le ore e i giorni passavano senza che si arrivasse a una decisione: trovare un degno successore era veramente cosa difficile, anche perché il popolo rumoreggiava e si agitava, pronto a ribellarsi a qualunque cattivo compromesso.
    Alla fine, dopo mesi e mesi di inutili consigli ed assemblee, saltò fuori che Riccardino, il garzone del panificio di Mastr’Andrea, aveva visto in sogno re Bisticchio. “Riccardino” – avrebbe detto il vecchio re - “va dal primo ministro e digli che, se pure da morto, continuerò a regnare. Mi chiamino di notte, allo scoccare della mezzanotte, e io verrò puntuale”.
    Sulle prime la notizia fu accolta al palazzo con noncurante scetticismo ma poi il vecchio Ambrogi, già gran ciambellano del defunto re, attualmente in pensione ma sempre molto influente a corte, insistette col primo ministro che bisognava provare, che non c’era nulla da perdere e forse anzi tutto da guadagnare da quella inusuale cerimonia. E così fu. Il gran consiglio al completo si riunì nella sala del governo e a mezzanotte di giovedì 7 marzo le mani di tutti i ministri formavano un cerchio, poggiate sul grande tavolo ovale.
    Quando la pendola batté l’ora, i pesanti tendaggi alle finestre si mossero come agitati da una folata di vento, al ministro degli interni venne su un brivido freddo lungo la schiena, una specie di bianco fumo luminoso apparve sospeso sul tavolo e una voce lontana eppure presente risuonò nell’aria carica di tensione: “Ero vecchio e stanco e sono stato contento di morire, per far riposare il mio corpo e la mia anima e lasciare ad altri il compito di governare le cose terrene. Vedo però che non ve la cavate molto bene e i sogni di molti sudditi mi raccontano la preoccupazione e a volte anche la rabbia del popolo. Ho allora chiesto e ottenuto il permesso di continuare a occuparmi del mio amato regno. Non potrò certo farlo come prima, visto che sono morto, e anche il mio fantasma non se la sente di stare sempre in giro e in attività, per cui ho deciso di regnare attraverso i sogni della gente: li ascolterò per capire come vanno le cose e mantenermi aggiornato sui problemi del regno, mentre per trasmettervi le mie decisioni mi servirò di Riccardino, il garzone del panificio di Mastr’Andrea”.
    Il fantasma del re Bisticchio parlò con tono calmo ma deciso, non fece richieste e non aspettò domande e la sua voce svanì così come era arrivata, le tende si agitarono un po’ e il brivido di freddo ridiscese la schiena del ministro degli interni. Riccardino fu informato della cosa quella notte stessa dal re in persona – si fa per dire – ma, alla richiesta del primo ministro di stabilirsi a corte, gentilmente rifiutò: preferiva l’odore del pane e dei biscotti appena sfornati a quello della cipria e dell’inchiostro. Così, ogni mattina, un corteo di ministri, paggi e attendenti attraversava per due volte la città, prima dal palazzo reale alla forneria di Mastr’Andrea, dove Riccardino dettava i suoi sogni, e poi da lì di nuovo al palazzo.
    Da quel tempo sono passati tanti, tanti anni e ovviamente Riccardino non c’è più, ma il re Bisticchio continua a governare quello sperduto regno felice, scegliendo di volta in volta un bravo ragazzo a cui raccontare in sogno le proprie volontà. Solo che adesso i ministri non attraversano più la città in corteo e preferiscono usare il telefono per interrogare il sognatore prescelto; per questo sono tutti grassi e soffrono il mal di schiena.

 
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